Il pane di segale in Valle d’Aosta si cuoce tradizionalmente una volta l’anno. Oggi è una gran festa. Un tempo il rapporto con il pane di segale era diverso.
Ho tradotto alcune testimonianze raccolte nel libro Du blé au pain, dal grano al pane, giusto per ricordare come si viveva in Valle d’Aosta nella prima metà del 1900.
A volte diciamo: “la segale di laggiù non è buona come la nostra“. È giusto! la Valle d’Aosta ha una segale che è molto più chiara, somiglia quasi al grano a confronto di quella di fuori… Ma la cosa più importante è la conservazione della segale fatta dai nostri vecchi. Con cura, prendevano questa segale, la mettevano sui trapèi a seccare, dentro la sua paglia e la sua spiga. Poi lo battevano, separavano il chicchi dalla pula, e la mettevano nella madia dove la lasciavano tre mesi. Poi la portavano a macinare.
Non è più la segale delle nostre vecchie madie dove dopo aver finito di batterla la mettevano a finire di seccare. Non faceva nessuna fermentazione. Restava il tradizionale profumo e gusto della segale che non è fermentata.
Testimonianza di Émile Marcoz pag. 58, 59
Per fare il lievito si metteva la farina di segale bagnata con acqua e mettevano l’impasto nella stalla, in un piatto, al caldo affinché fermentasse per diventare lievito. Questo lievito si conservava a volte un anno per l’altro: finita l’infornata si metteva un grosso pezzo di lievito avvolto negli stracci in un posto un po’ umido e si lasciava per l’anno seguente. L’anno seguente si disfava il tutto e in mezzo trovavi ancora una noce di quella pasta, la impastavi nuovamente con della farina di segale, impastavi bene. Si faceva in fretta ad avere il lievito.
Come pagamento prendevano pane: un pane per infornata a chi impastava e due pani al padrone del forno che faceva da fornaio. E le persone si aiutavano l’una con l’altra.
Ognuno aveva il grenì oppure dicevano la stanza del pane per farlo seccare: là erano un po’ più protetti dalla polvere. Altrimenti che fare? appendevano le rastrelliere ai travi del tetto e i pani prendevano la polvere quando si andava a prendere il fieno e entravano anche gli uccelli e bon, a volte, c’erano anche delle cacche di uccelli sopra … e poi pulir via tutto con una spazzola e tutto si mangiava, non si buttava nulla perché si era sempre nella scarsezza.
In alcune famiglie, ma era rarissimo che il pane avanzasse, a volte l’anno successivo il pane faceva i vermi. Lo usavano lo stesso. Lo tritavano nel brodo o nel caffellatte e in superficie si vedevano tante piccole bestiole bianche simili a formiche, lunghe. Dei piccoli vermi bianchi. Poi toglievano ciò che c’era in superficie e mangiavano lo stesso. Qualcuno mangiava persino senza togliere nulla. Sicuramente non sprecavano nulla.
A volte c’era persino del pane ammuffito. Buttavano solo la parte più verde, ricordo ancora che i genitori dicevano “Bisogna mangiar tutto, dà un bel colorito, fa venire le gote belle rosse” dicevano pure: “insegna a fischiare” e noi mangiavamo. Pensate a che punto. Non avevano paura che prendessimo delle infezioni o che ci venisse il mal di pancia, spingevano persino i bimbi a mangiare il pane ammuffito.
Testimonianza di Albertine Cargnand pag. 66, 84, 89, 95
Per conservare il pane lo mettevano sulle rastrelliere e si conservava un anno. Si poteva mangiare fresco e quando diventava duro si tagliava con il taglia-pane o coppapan. C’era chi lo pestava in un mortaio di pietra con un cuneo e metteva questo pane nella minestra. Dopo un anno il pane può mettere i vermi perché c’è molto più frumento. Un tempo ciò non succedeva perché il pane veniva quasi tutto fatto di segale.
Testimonianza di Edmond Lavanche pag. 91
Testimonianze raccolte in: AAVV, Du blé au pain, Musumeci Editeur, Aoste, 1987 – ISBN 88-7032-246-7 [255] – Traduzione italiana di Gian Mario Navillod.