Vitis vinifera in Valle d’Aosta

Vitis vinifera del villaggio di Baisepierre quota 1390 m s.l.m. - Foto di Gian Mario Navillod.
Vitis vinifera del villaggio di Baisepierre – quota 1390 m s.l.m. – Foto di Gian Mario Navillod.

Nel cuore delle Alpi, in Valle d’Aosta, è possibile osservare grappoli d’uva a quote elevate. Grazie ad Alexis Bétemps che mi ha segnalato la vite di Baisepierre ad Arvier che cresce a 1390 m s.l.m.

Vitis vinifera del Rovet di Torgnon quota 1235 m s.l.m. - Foto di Gian Mario Navillod.
Vitis vinifera del Rovet di Torgnon quota 1235 m s.l.m. – Foto di Gian Mario Navillod.

Molto più in alto della vite del Rovet di Torgnon, nella valle del Cervino, che fruttifica a 1235 metri di quota e di quella tra le Devies e Promiod di Châtillon che ho fotografato nel 2004 a 1365 metri di altezza sul livello del mare.

La vite di Chavalançon/Chavalancon/Chavalanson di Sarre segnalata da Claudine Remacle - Foto cortesia © Claudine Remacle.
La vite di Chavalançon/Chavalancon/Chavalanson di Sarre segnalata da Claudine Remacle – Foto cortesia © Claudine Remacle.

Il record di altitudine appartiene però alla vite di Chavalancon/Chavalanson di Sarre segnalata da Claudine Remacle che vegeta a 1420 m di quota s.l.m.

Giovanni Vauterin segnala nel 1165 l’infeudazione di una vigna a Berzin a 1186 m di altezza sul livello del mare(1)Giovanni Vauterin, Gli antichi rû della Valle d’Aosta, Le Château Edizioni, Aosta, 2007, ISBN 88-7637-057-9, pag. 29

Vitis vinifera in loc. Devies di Châtillon - Foto di Gian Mario Navillod.
Vitis vinifera in loc. Devies di Châtillon – Foto di Gian Mario Navillod.

Curiosità

Nel 1836 alcuni valdostani facevano il bagno nel mosto. Il medico canavesano Lorenzo Francesco Gatta sconsigliava tale pratica con queste parole: “… la pratica di far entrare nei tini uomini ignudi per pigiare, e che a forza di calpestare le uve vi s’immergono sino al collo, è indecente, contraria alla voluta pulizia, pericolosa, e di più riesce il pigiare imperfetto, perché a misura, che la massa diviene fluida, molti acini, anzi interi racemoli nuotando nel liquido sfuggono alla pressione … io preferirei che le uve si ammaccassero accuratamente in piccoli mastelli, e che il mosto fosse poi subito versato nei tini …(2)Lorenzo Francesco Gatta, approfondimenti a cura di Rudy Sandi, Saggio sulle viti e sui vini della Valle d’Aosta, Rudy Sandi editore, 2014, ISBN 5-800106-861001 pag.

Con buona pace di Lorenza Gatta, alcuni valdostani continuarono a fare il bagno nel mosto durante la vendemmia almeno fino alla metà del XX secolo: “Per la pigiatura, essendo alto di statura, mi chiamavano in molti nella frazione dove abitavo, era un lavoro molto faticoso che si protraeva anche più di un paio d’ore e per sostenermi nello sforzo, mi offrivano del caffé con del vino … Quasi alla fine della pigiatura, toccando il fondo del tino, la massa ti comprimeva lo stomaco perché l’uva era già calda e in fermentazione … Per uscire dal tino, ci si portava al centro e si veniva quasi spinti fuori, dalla pressione, come un’anguilla. Appena uscito, trovavo già pronto un hebbe (mastello) pieno d’acqua tiepida per lavarmi” – intervista a G.F. di Donnas, nato nel 1928(3)Cesare Cossavella, Vini, vigneti e vignerons della Valle d’Aosta, Priuli e Verlucca editori, Ivrea 2012, ISBN 978-88-8068-581-4, pag. 36.

Operazione non scevra da pericoli: “La grande raccomandazione durante la vendemmia era quella di non dimenticare coltelli o altri oggetti taglienti in mezzo all’uva che veniva versata nel tino. L’uva veniva lasciata nel tino per alcuni giorni, in modo che si scaldasse, dopodiché si entrava nudi e si cominciava a fare il giro pigiando piano piano … ci volevano più di due ore. I raspi erano duri e graffiavano il corpo e le gambe. Guai se ci fosse stata una lama tra i grappoli, perché avrebbe potuto tagliarci e farci morire dissanguati, dato che essendo in mezzo al liquido uno non se ne sarebbe accorto.” – intervista a R. J. di Verres, nato nel 1933(4)Cesare Cossavella, Vini, vigneti e vignerons della Valle d’Aosta, Priuli e Verlucca editori, Ivrea 2012, ISBN 978-88-8068-581-4, pag. 43.

Ricorda Paolo Yeuillaz classe 1930: “L’uva nel tino la pigiavamo a piedi nudi, ma se succedeva che si perdesse un coltello, probabilmente finito tra le uve, pigiavamo calzati per evitare dei tagli. Una volta un amico si è tagliato una gamba e avrebbe potuto anche morire dissanguato perché nel liquido del mosto era difficile accorgersi della perdita del sangue.”(5)Cesare Cossavella, Vini, vigneti e vignerons della Valle d’Aosta, Priuli e Verlucca editori, Ivrea 2012, ISBN 978-88-8068-581-4, pag. 55

Anche se gli anziani sostenevano che fosse un toccasana: “Pigiare le vinacce nei tini non era un bel lavoro, c’era Peaquin Dzoset che folave tutti i tini del borgo [di Montjovet NdR] e, quando aveva finito e usciva, gli offrivano un fiasco di vino che beveva praticamente d’un fiato e poi passava a un altro tino e così via. I vecchi dicevano che pigiare le uve risanava una persona.(6)Cesare Cossavella, Vini, vigneti e vignerons della Valle d’Aosta, Priuli e Verlucca editori, Ivrea 2012, ISBN 978-88-8068-581-4, pag. 59

Chissà cosa ne avrebbe pensato Edward Whymper che così racconta la fabbricazione del formaggio nella Svizzera del 1864: “Un indigeno, orribilmente  sporco, ci invitò ad entrare, … era presissimo dalla fabbricazione dei suoi formaggi. Uno di quegli sgabelli ad una gamba che si utilizzano per mungere le mucche, solidamente legato al fondoschiena, gli dava uno strano andazzo quando si alzava per soffiare in un gran tubo, poiché, per fabbricare i suoi formaggi, doveva soffiare, a quanto pare, per dieci minuti in quel gran tubo che rimpiazzava un soffietto. Terminata l’operazione si rannicchiava sul suo sgabello per riprender fiato, tirando qualche boccata da una piccola pipa, poi si rimetteva a soffiare nel suo tubo con nuovo vigore. Questo processo di fabbricazione era, ci dissero, indispensabile per ottenere una buona qualità del formaggio; ci parve, lo confesso, molto sporco. Ora so da dove arriva il sapore particolare di certi formaggi svizzeri(7)https://archive.org/stream/scramblesamongst00whymuoft?ui=embed#page/241/mode/1up

Vini valdostani costosissimi

Grazie alle ricerche di Rudy Sandi è possibile farsi un’idea di quanto fossero ricercati alcuni vini valdostani nella seconda metà del 1700 e di quanto fosse elevato il loro prezzo.

Vignet des Etoles, il funzionario sabaudo che amministrava il Ducato di Aosta, scrive nel 1774 al maggiordomo del Re di Sardegna che “ … les bonnes bouteilles de bourgogne se vendent ici six sols et demi … ” mentre la bottiglia di buon moscato [passito] si vedeva “ … 28 ou 30 sols la bouteille …(8)le buone bottiglie di borgogna si vendono qui sei soldi e mezzo … ” la bottiglia di buon moscato [passito] si vedeva ” … 28 o 30 soldi la bottiglia … circa cinque volte tanto.

Con la stessa cifra si potevano comperare 130 litri di vino rosso sfuso di prima qualità(9)Lorenzo Francesco Gatta, approfondimenti a cura di Rudy Sandi, Saggio sulle viti e sui vini della Valle d’Aosta, Rudy Sandi editore, 2014, ISBN 5-800106-861001 pag. 139 e 179.

Vignet des Etoles scriveva che fu proprio un viticoltore di Chambave il primo produttore del moscato passito: “… après avoir laissé pailler son raisin jusqu’après Noël en retira un jus parfaitement mur et fort … plusieurs particuliers dans tout le duché en ont fait ensuite à cet exemple …(10)dopo aver lasciato appassire l’uva fin dopo Natale ne tirò una succo perfettamente maturo e forte … diversi piccoli produttori in tutto il ducato hanno seguito questo esempio …” – Lorenzo Francesco Gatta, approfondimenti a cura di Rudy Sandi, Saggio sulle viti e sui vini della Valle d’Aosta, Rudy Sandi editore, 2014, ISBN 5-800106-861001 pag. 152 – libera traduzione di Gian Mario Navillod

Memorie di Felix Pattern sull’ospitalità svizzera

… la pessima moglie gli disse – Vedo che mi porti degli ospiti? E allora! Sia in nome del diavolo! – ci servì un po’ di latte insaporito con del pepe e bevemmo dell’eccellente vino della Valle d’Aosta. Dopo il pasto si stese nella camera della paglia, e ci coricammo sopra. In quel momento mio padre mi disse – Vedi, Félix, come mi si riceve bene qui!

Tratto da Mémoires de Félix Platter, médecin bâlois, ed. J.G. Fick, 1866, pag. 95, versione digitale disponibile qui: https://books.google.it/books?id=AJMPAAAAQAAJ&hl=it&pg=PA95

Johann Wolfgang von Goethe e il moscato di Chambave

Il grande scrittore il 4 novembre 1779 scriveva(11)Johann Wolfgang von Goethe, Werke, Wien, 1817, pag. 282 -versione digitale disponibile qui: https://books.google.it/books?id=3ooTAAAAQAAJ&pg=PA282: “Chamouni, den 4. Nov. … Wir sitzen am Kamin und lassen uns den Muskatellerwein, aus der Vallée d’Aost, besser schmecken, als die Fastenspeisen, die uns aufgetischt werden“. (12)Chamonix, 4 novembre … Siamo seduti davanti al caminetto e ci beviamo il moscatello della Valle d’Aosta, che è migliore dei piatti di magro che ci sono serviti

I consigli del canonico Edouard Bérard per rendere il vino più spiritoso

Per renderlo migliore usasi da alcuni esporlo al freddo in mastelli, si forma allora uno strato di ghiaccio alla superficie, togliendo il quale si diminuisce la quantità d’acqua ed il vino riesce più spiritoso(13)Lorenzo Francesco Gatta, approfondimenti a cura di Rudy Sandi, Saggio sulle viti e sui vini della Valle d’Aosta, Rudy Sandi editore, 2014, ISBN 5-800106-861001 pag. 163”.

Pieno come un otre o come un rospo?

Nel dialetto valdostano si dice “pien comen en bot” quando si è mangiato troppo. Ho sempre pensato che il proverbio si riferisse ai rospi che hanno una bella pancetta ma da quando ho letto la ricerca di Rudy Sandi sugli otri valdostano mi son dovuto ricredere.

Gli otri valdostani erano fatti di pelle di capra o di vacca, a volte si lasciava il pelo all’interno senza che ciò trasmettesse odori o sapori particolari al vino. La capacità variava dai 15 agli 80 litri e il primo riferimento citato da Rudy Sandi risale alla fine del 1300 ” … corea bovina … pro faciendo sex paria de bocs ad deportandum vinum …(14)” … cuoio di vacca  … per fare sei paia di otri per il trasporto di vino …” NdR

L’uso degli otri in Valle d’Aosta è proseguito almeno fino alla prima metà del XX secolo. Alfonso Vallino di Verrès, classe 1915, ricorda: “Alcune persone di Challand, che avevano le vigne della Nahtse fino verso Montjovet, usavano l’oro (otre) fatto con la pelle di capra rovesciata, col pelo all’interno, che dopo essere feità (conciata) manteneva il vino buono e non gli dava nessun gusto. L’oro aveva una capacità di 50/60 litri ed era molto comodo perché non pesava  ed essendo morbido aderiva bene, sia sulle spalle, sia sul dorso dei muli o degli asini e si caricava senza basto.

Per conciarlo, lo si portava sotto Ivrea; c’era però qualcuno che se lo faceva in proprio. Si metteva la pelle in mezzo a una quantità di sale, che era in rapporto all’area da trattare, e lo si lasciava per 30 giorni. Appena tolto, dalla pelle, veniva raschiata la setola fino ad arrivare alla seconda pelle. A questo punto veniva girata e cucita. C’erano dei veri maestri nello scuoiare gli animali, riuscivano a sfilare la pelle, facendola passare dalla testa e lasciandola intatta. Per abbellire l’oro, alcuni lasciavano la testa, solo gli occhi erano finti e venivano comprati. Il tappo normalmente era legato e rimaneva sempre in alto. Prima di essere adoperato, l’oro veniva sciacquato col vino e, quando avevano tolto il vino, lo capovolgevano così, goccia dopo goccia, ricuperavano un paio di bicchieri di vino che era stato trattenuti dai peli interni.”(15)Cesare Cossavella, Vini, vigneti e vignerons della Valle d’Aosta, Priuli e Verlucca editori, Ivrea 2012, ISBN 978-88-8068-581-4, pag. 54

Anche a Torgnon si utilizzavano gli otri: “Molti abitanti di Torgnon avevano le vigne e le cantine a Chambave e trasportavano il vino nei barô sistemati sul dorso dei muli. Altri usavano l’oro (otre) ricavato dalla pelle delle capre.”(16)Cesare Cossavella, Vini, vigneti e vignerons della Valle d’Aosta, Priuli e Verlucca editori, Ivrea 2012, ISBN 978-88-8068-581-4, pag. 56

Vino in fiaschi otri e zucche

Come si portava il vino da bere in campagna? Alfonso Vallino racconta: “Nelle scampagnate in allegria portavamo la gorgia (gurda), che aveva praticamente subito la stessa lavorazione dell’otre, ma era molto più piccola e conteneva circa due litri … Quando si andava in campagna a fare i lavori, si portava sempre da bere e sovente anche da mangiare; la maggior parte usava il fiasco, ma qualcuno aveva un tipo di zucca che, raschiata all’interno e lasciata seccare, conservava benissimo il vino.(17)Cesare Cossavella, Vini, vigneti e vignerons della Valle d’Aosta, Priuli e Verlucca editori, Ivrea 2012, ISBN 978-88-8068-581-4, pag. 54

I ghiri e l’uva

Paolo Yeuillaz classe 1930 racconta del rapporto tra uomini ghiri e uva: “Una volta gli uccelli non danneggiavano l’uva perché nei vigneti c’era sempre gente, per cui venivano disturbati. Neppure i ghiri la rovinavano, perché parecchi viticoltori tendevano le trappole per mangiarli e si diceva che erano molto buoni. Ora invece penso che i giovani non sappiano più preparare le trappole e così gli animaletti aumentano”(18)Cesare Cossavella, Vini, vigneti e vignerons della Valle d’Aosta, Priuli e Verlucca editori, Ivrea 2012, ISBN 978-88-8068-581-4, pag. 55

Come difendere l’uva dai tassi

A Montjovet si faceva così: “Un grosso danno per i vigneti era il tisson (tasso), ora quasi sparito; lui puliva completamente il grappolo lasciando solo più il raspo; lo si cacciava di notte, con i cani e si cercava di bloccarlo in un angolo per poi ucciderlo con dei forconi, perché col fucile, essendo buio, era pericoloso e si sarebbe potuto ferire qualcuno.” (19)Cesare Cossavella, Vini, vigneti e vignerons della Valle d’Aosta, Priuli e Verlucca editori, Ivrea 2012, ISBN 978-88-8068-581-4, pag. 59

Post del 1.06.2019 ultimo aggiornamento 12.08.2022

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