Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega 2017 con il romanzo “Le otto montagne” ambientato in Valle d’Aosta ha lanciato dal suo blog un accorato appello in difesa di “un ultimo vallone selvaggio ai piedi del Monte Rosa” il Vallone delle Cime Bianche1.
Cos’è il Vallone delle Cime Bianche? Per saperlo è sufficiente essere stati una volta nella vita a Cervinia. Il Vallone delle Cime Bianche è l’opposto, l’altra faccia della medaglia.
Cervinia e le sue piste da sci
Immaginare Cervinia è facile: prendete un pezzo di città costruito nella prima metà del 1900 e trapiantatelo in una splendida conca di alta montagna dominata dalla sagoma inconfondibile del Monte Cervino. Da Cervinia al ghiacciaio del Plateau Rosà tracciate una linea dritta: sono gli impianti di risalita. Funivie, seggiovie, depositi di attrezzatura per le piste di sci, bar e ristoranti.
In inverno una soffice coperta di neve copre tutto, bianca, morbida, irresistibile. Al disgelo cominciano ad affiorare le piste di sci. Non quelle inerbite e curate che in primavera si coprono di fiori. Quelle scavate dal bulldozer in alta quota, tra le morene e le pietraie, proprio ai piedi dei ghiacciai. L’effetto è quello di una cava di sabbia. Piste per camion e fuoristrada che si incrociano, rocce frantumate, polvere e qualche pezzo di plastica che affiora qua e là. Chi conosce le piste di sci di Cervinia in estate le evita, soprattutto da Plan Maison al Colle delle Cime Bianche.
Il Vallone delle Cime Bianche
Quando si passa dall’altra parte del Colle sembra di aver attraversato una porta spazio-temporale. Tutto è rimasto come lo hanno visto i viaggiatori inglesi del XIX secolo. Non ci sono strade sterrate che solcano il vallone, non ci sono cani che abbaiano ai turisti dagli alpeggi. Non vi è traccia dei tubi di plastica rossi per l’irrigazione dei prati, delle legature fatte con spaghi azzurri riciclati, dei teloni che coprono i vecchi tetti, non ci sono tralicci dell’alta tensione. Solo silenzio e natura.
Non fosse per le poche costruzione rurali abbandonate si potrebbe immaginare di essere un mercante romano diretto al Colle del Teodulo, la via più breve per raggiungere la Gallia Belgica da Ivrea o, come la chiamavano gli antichi, Eporedia.
Il Vallone delle Cime Bianche è rimasto uno dei pochi luoghi in Valle d’Aosta dove il tempo si è fermato. Paolo Cognetti ne è innamorato, come tutti gli escursionisti che lo abbiano percorso almeno una volta nella vita. E vorrebbe evitare che gli impianti di risalita proposti per il collegamento tra i comprensori sciistici di Zermatt-Cervinia-Valtournenche e Gressoney-Alagna portino nel XXI secolo il Vallone delle Cime Bianche.
Forse è possibile.
Proviamo a guardare al Vallone delle Cime Bianche con gli occhi di Georges Carrel, il sacerdote valdostano che già nel XIX secolo aveva capito che il turismo nascente avrebbe salvato dalla miseria i piccoli agricoltori valdostani che si affannavano in un’agricoltura eroica ai limiti dell’autosussistenza.
I limiti inferiori sia chiaro, perché non si spiegherebbe altrimenti:
- l’emigrazione stagionale di adulti che esercitavano la nobile professione del commercio, definiti mercanti in Valle d’Aosta ma probabilmente considerati dagli svizzeri più simili ai vu cumprà2 che il ministro dell’interno Salvini desiderava allontanare dalla spiagge italiane;
- l’emigrazione di adulti impiegati nell’edilizia, proprio come gli extracomunitari che lavorano oggi nei nostri cantieri;
- l’emigrazione di bambini che lavoravano come spazzacamini3 o artisti di strada.
Georges Carrel ha dedicato la sua vita a far conoscere al mondo le bellezze della sua valle, certo che un periodo di vacanza tra le montagne avrebbe fatto bene al corpo ed allo spirito del turisti. E allo spirito e al portafoglio dei valdostani. Anche il sacerdote svizzero Johann Joseph Imseng, di qualche anno più giovane4, oggi ricordato come il primo sciatore elvetico, fu un promotore del turismo di montagna che si stava sviluppando in quegli anni nelle Alpi svizzere e se si confronta l’offerta turistica dei due versanti del Monte Cervino sembrerebbe con maggior fortuna.
Non credo che Carrel mirasse all’arricchimento di pochi, fortunati, proprietari terrieri valdostani. Lo lascia intuire la sua reazione stizzita alla notizia che era stato stipulato un contratto d’affitto per il Monte Cervino. Penso che mirasse piuttosto a dare un lavoro ragionevolmente retribuito ai suoi concittadini, che permettesse loro di vivere con dignità in montagna. Perché senza lavoro in montagna i montanari scendono in pianura. E una montagna spopolata è bellissima per i buoni camminatori come me e come Paolo Cognetti ma molto meno attrattiva per le signore e i signori diversamente giovani che gradirebbero sedere in un posto riparato e preferibilmente riscaldato dopo una breve escursione o una lunga passeggiata in “quell’aria fine che dona vigore” così amata dalla Regina Margherita di Savoia che per 36 anni passò le sue vacanze a Gressoney5.
La scelta del restauro ambientale.
Immaginiamo l’Hôtel Bellevue di Fiery6, riaperto e pronto ad accogliere i turisti che desiderano trascorrere una settimana di vacanza come si usava a inizio novecento, arrivando a piedi o a dorso di mulo, assaporando la cucina dei nostri nonni e ritemprando la mente ed il corpo come usavano i nostri bis bisnonni, vacanze di musica e di poesia, di camminate in montagna, di vento e di silenzio.
Immaginiamo gli alpeggi del Vallone delle Cime Bianche gestiti dall’Istitut Agricole Régional, la scuola di agricoltura della Valle d’Aosta dove vengano sperimentate le tecniche per rendere sostenibile l’agricoltura di alta montagna, e immaginiamo che un alpeggio abbandonato venga riportato in vita e gestito con le antiche tecniche utilizzate fino alla fine del XX secolo. Un alpeggio trasformate in museo di se stesso dove si possa far rivivere la vita in alpeggio prima della meccanizzazione. La scelta dei pascoli fatta giorno per giorno dal capo pastore, la manutenzione delle canalette per la fertirrigazione, la lavorazione del latte, i lavori più semplici fatti un tempo dagli alpigiani bambini, i lapaboura7.
Avremmo del lavoro per chi abita in montagna e delle emozioni di qualità da offrire ai turisti. Potremmo far toccare con mano ai nostri ospiti cosa significa vivere in montagna ricordando che sin dalla preistoria la montagna senza uomini non è mai esistita in Valle d’Aosta.
La scelta del parco urbano.
Se invece si pensa di lasciare il Vallone delle Cime Bianche così com’è, meta di splendide passeggiate per gli amanti della wilderness che arrivano in auto dalla città con il pranzo al sacco nello zaino, comperato in città, bisogna avere l’onestà di dire che ciò non rende la vita in montagna più sostenibile per chi ci abita ma rende il Vallone delle Cime Bianche molto simile ad una cosa che la gente di città conosce molto bene: il parco urbano.
Un luogo ameno, acquisito e manutenuto dalla città per il benessere dei suoi cittadini. Gratuito ma circondato da servizi a pagamento. Se è questo il futuro che si auspica per la montagna basta acquisire le aree interessate come facevano un tempo i signori con le loro riserve di caccia e lasciare tutto com’è.
In tutti e due i casi per essere credibili è necessario mettere le mani al portafogli altrimenti si rischia di dare ottimi consigli in casa altrui, consigli di rado seguiti e non sempre bene accetti. Hanno messo la mano al portafogli Georges Carrel e Johann Joseph Imseng nel XIX secolo e lo fa il Fondo per l’Ambiente Italiano nel XXI.
Se ogni lettore di Paolo Cognetti investisse 10 euro per il restauro del Vallone delle Cime Bianche il problema si risolverebbe da sé.
Se un intellettuale coraggioso con a cuore il futuro del Vallone delle Cime Bianche aprisse una sottoscrizione per il suo restauro si avvicinerebbe un po’ di più il mio sogno di una montagna abitata in maniera sostenibile. La scelta tra i posti di lavoro che garantiscono gli impianti di risalita e la montagna abbandonata per gli amanti della wilderness lascia poco spazio all’incertezza agli abitanti della montagna.
Nel 1865 Georges Carrel iniziò una raccolta fondi per la costruzione di un rifugio sul Cervino versando i primi 50 franchi, due anni dopo il rifugio era inaugurato. Spesso il buon esempio serve più delle buone parole.
Un gentile lettore
Un gentile lettore mi ha chiesto qualche consiglio per evitare che le piste di sci deturpino il vallone delle Cime Bianche.
Con l’inguaribile ottimismo che nasce dalle nostre radici giudaico-cristiane mi auguro che prima o poi qualche intellettuale della statura di Georges Carrel o di Federico Chabod riesca a portare idee nuove per rendere la vita in montagna dignitosa e sostenibile.
Non so a chi toccherà provarci e neppure se il Messia sia già in cammino, però mi piacerebbe vedere un’inversione di tendenza: meno proteste e più proposte e, soprattutto, proposte sostenibili perché mi hanno un po’ stancato le categorie dei lavoratori per passione che in realtà mettono insieme il pranzo con la cena solo grazie ai contributi dell’Unione Europea.
Il riscaldamento globale sta cambiando i nostri inverni, la stagione dello sci diventa sempre più corta: quando ero bambino la pista di fondo ad Antey durava tutto l’inverno. Oggi neppure a Chamois, il comune più alto della Valle d’Aosta, riesco garantire ai miei ospiti neve sufficiente per ciaspolare a dicembre.
Le estati più calde però fanno venire a tanti il desiderio di cercare il fresco in alta montagna, magari con vista sui ghiacciai.
Forse possiamo immaginare un turismo diverso, fatto di cultura, di archeologia sperimentale e di artigianato, che non abbia necessità di contributi pubblici e che si regga sulle sue gambe.
Chi abita in montagna per ora sta in piedi grazie al turista che scia e pranza in rifugio; un po’ meno grazie a quello che cammina e si ferma per un bicchiere di vino con una fetta di torta in rifugio.
Se gli abitanti della montagna dovesse mettere insieme il pranzo con la cena grazie ai turisti che arrivano e ripartono in giornata portandosi il pranzo al sacco dalla pianura si risolverebbero in fretta i problemi dovuti all’alimentazione ipercalorica e in breve tempo si aggiungerebbe una manciata di montanari agli abitanti delle grandi città.
Riuscissimo invece a far passare il messaggio che un’escursione guidata in montagna non è così diversa da una conferenza o un concerto in città potremmo incentivare il turismo sostenibile in montagna.
Sostenibile per le tasche dei turisti perché il costo di una passeggiata guidata in montagna è generalmente pari a quello di una serata a teatro e sostenibile per chi abita la montagna perché senza un lavoro dignitoso le persone più capaci scelgono di andare altrove a cercar fortuna, come hanno fatto i fratelli di mia nonna nel secolo scorso e come hanno fatto i miei figli in questo millennio.
Chi è rimasto forse non è sufficientemente capace o forse è trattenuto da legami che prescindono dai fattori economici che sono indispensabili per mantenere vitale una qualsiasi organizzazione umana. Se l’obiettivo è far scendere l’uomo delle alte quote è sufficiente aspettare sul bordo del fiume che le persone in cerca di lavoro scendano a valle, pensionati ed eremiti seguiranno presto. Altrimenti occorre uno sforzo comune, di intelligenza più che di capitale.
Lascio il lettore con una storiella divertente che racconto spesso ai turisti sulla valle di Ayas, la devo ad Alexis Bétemps, un montanaro che ricorda Amé Gorret, sia nel fisico che nello spirito.
“Quando un luogo è percepito come brutto dal punto di vista morfologico, secondo la percezione tradizionale valdostana (valle stretta, pendio ripido, terreno sassoso, vegetazione non curata) si dice che il Buon Dio vi sia passato di notte. Così non si è reso conto dei suoi errori e non ha provveduto alle migliorie che la sua infinita bontà gli avrebbe ispirato.
Ma, raccontano gli abitanti di Challand-Saint-Anselme, il Buon Dio accompagnato dal fedele San Pietro, è passato nella vallata dell’Evançon, per la sua visita d’ispezione subito dopo la creazione, in una bella giornata di sole. San Pietro e il suo Superiore, non hanno fatto altro che rallegrarsi per la riuscita dell’opera durante tutta passeggiata: davvero non si sarebbe potuto far di meglio!
Ma, un dubbio impertinente all’improvviso si insinua nella loro testa: questa perfezione senza macchia, non potrebbe rappresentare un’ingiustizia nei confronti di altri luoghi? Così per ristabilire la giusta misura ed evitare privilegi, il Buon Dio decise di inserire in questo splendido paesaggio gli abitanti di Ayas8…
A volte i montanari li vediamo così, gente un po’ fastidiosa che il Buon Dio ha inserito in uno splendido paesaggio per ristabilire la giusta misura. E se li considerassimo dei bipedi in via di estinzione?
Post del 10.08.2017 ultimo aggiornamento 10.01.2023
- http://paolocognetti.blogspot.it/2017/07/i-distruttori.html[↩]
- Il Consiglio del Vallese nell’agosto 1554 decise ed ordinò di vietare il commercio ai Grissoneyer (Gressonari) e agli Ayâtzer (abitanti della valle di Ayas) accusati di passare casa per casa a truffare donne, bambini e sempliciotti vedi: https://gian.mario.navillod.it/truffatori-valdostani-nel-vallese/[↩]
- Nel marzo 1902 il tribunale di Aosta condannò a tre mesi di carcere e 300 lire di ammenda un trafficante di carne umana che acquistava a Chambave, dai genitori poveri, i bambini e li conduceva all’estero per avviarli al mestiere di spazzacamino. https://gian.mario.navillod.it/mercato-degli-schiavi-valle-daosta/[↩]
- https://gian.mario.navillod.it/johann-josef-imseng/[↩]
- https://gian.mario.navillod.it/la-regina-margherita-a-gressoney/[↩]
- https://gian.mario.navillod.it/un-tuffo-nel-lago-blu-di-verra/[↩]
- Il lapaboura era il il lavoratore più giovane dell’alpeggio, vedi: https://gian.mario.navillod.it/lavar-le-balle-al-toro/[↩]
- libera traduzione dal francese di Gian Mario Navillod, tratta da Alexis Bétemps, La moquerie dans nos montagnes: qui est moqué, de la part de qui, comment et pourquoi. Esquisse de la distribution géographique de la moquerie en Vallée d’Aoste, Actes du colloque international de l’Université de Neuchâtel, 31 mai – 1er juin 2013, Peter Lang: Berne, 2015 – versione digitale disponibile qui: https://betemps.eu/moquerie-nos-montagnes/[↩]