Selvicoltura in Valle d’Aosta

Canale di carico in legno di larice del primo mulino lungo il Ru des Moulins di Promiod - Foto di Gian Mario Navillod.
Canale di carico in legno di larice del primo mulino lungo il Ru des Moulins di Promiod – Foto di Gian Mario Navillod.

Qualche anno fa mentre accompagnavo degli studenti che si occupavano di selvicoltura mi è stato chiesto se i boschi valdostani erano coltivati.

Ricordando mia nonna che non tornava mai a casa a mani vuote perché sosteneva che anche il ramo più fine era utilissimo per accendere il fuoco ho risposto di sì. Un tempo tutti i boschi erano coltivati, ora solo più quelli pubblici sono curati dalle squadre della forestale che tagliano le piante mature, quelle deboli o malate. I boschi privati stanno lentamente tornando allo stato primitivo, quando le piante cadute marcivano a terra nutrendo l’ecosistema del bosco.

Nei ricordi di Louis Oreiller(1)Louis Oreiller con Irene Borgna, Il pastore di stambecchi, Adriano Salani Editore, Milano 2018, ISBN 978-88-6833-781-0, pag. 23, classe 1934, ho ritrovato lo stesso concetto: “Con gli alberi ci vivevamo: la nostra era una vita di legno. Serviva per tutto: per costruire le case, le porte, i mobili, gli attrezzi, le sculture – per cucinare e per scaldarsi. Oggi il bosco è diventato spavaldo e sta riprendendo i suoi spazi, ma quando ero giovane gli unici alberi che vedevi in piedi erano quelli che servivano a qualcosa, per lo meno a fare ombra“.

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